11 settembre 2001: quando una fotografia diventa un simbolo universale.

L’11 settembre è stato, probabilmente, il giorno più fotografato della storia, nonostante sia avvenuto prima della grande diffusione di telefoni cellulari con fotocamera integrata e diversi anni prima della rivoluzione social, che ha reso possibile la condivisione di informazioni a un livello senza precedenti.

Il primo schianto ha disorientato, il secondo ha invece sancito la terribile sentenza, il tragico atto che ha cambiato la storia per sempre.

Nell’aria aleggiava forte il boato, il tuono sordo e fragoroso del crollo. Il mondo era diventato questo, adesso. Fumo e cenere rotolavano per le strade riempendo ogni angolo di polvere ed esplosioni, così come quando riempiamo di acqua una vaschetta di ghiaccio. Nubi di polvere scura e impenetrabile da qualsiasi luce invadevano le strade insieme ad una pioggia incessante di oggetti e fogli di carta per ufficio che planavano leggeri. Gli oggetti di un ufficio, di una qualsiasi ripetitiva giornata che piovevano intorno a cadaveri o vivi che si aggiravano intontiti e attoniti, al punto quasi da sembrare anch’essi senza più vita visto che per loro niente sarebbe mai più stato come prima.

Quel tragico giorno, a cui ha avuto seguito un bombardamento mediatico senza eguali, ha lasciato un solco profondo nella nostra memoria non solo per i fatti avvenuti ma anche per come abbiamo avuto modo di assistervi, per le immagini che hanno fatto il giro del mondo e che sono entrate forti, potenti, ridondanti e asfissianti nella storia.

E proprio quella mattina Il foto-giornalista dell’Associated Press, Richard Drew, non avrebbe mai potuto immaginare non solo di documentare una tragedia di quelle proporzioni, ma anche di consegnare alla storia una delle più potenti, forse la più potente di tutte le immagini di quel giorno.

Drew, la mattina di quel martedì 11 settembre si reca di buon mattino a fotografare una sfilata di moda al Bryant Park di Manhattan, una cinquantina di isolati a nord del World Trade Center. Il suo lavoro quel giorno consisterà nel fotografare una sfilata di moda premaman.

Nei dintorni era presente anche una troupe della CNN e un cameraman, il quale ricevette la comunicazione che un aereo si era schiantato contro una delle Torri Gemelle. In men che non si dica ecco l’apocalisse e, qualche minuto dopo, l’agenzia rintraccia Drew allertandolo, tramite il suo editor, di recarsi sul posto della segnalazione. Drew cambia programma e si dirige verso il World Trade Center per documentare quanto stesse accadendo.

Una volta uscito dalla metropolitana alla fermata di Chambers Street, si trova dinanzi una scena apocalittica: le torri gemelle avvolte nel fumo dopo essere state sventrate dall’impatto con gli aerei.

Senza troppo indugio, il fotoreporter iniziò a scattare con la sua fotocamera. Intorno a lui, la gente fuggiva in preda al panico e le persone intrappolate all’interno delle due torri urlavano chiedendo aiuto.

E proprio in quei momenti così concitati, così confusi e drammatici, Drew, osserva un individuo, uno dei tanti, che, già condannato a morte, tragicamente sceglie una fine meno dolorosa e terribile, gettandosi nel vuoto.

Sono le 9:41 e 15 secondi di martedì 11 settembre, In quel momento, Drew, alzando gli occhi al cielo, lascia che la sua fotocamera diventi testimone indelebile di quel giorno: un uomo cadeva nel vuoto gettandosi dalla Torre Nord del World Trade Center mentre Drew scatta una sequenza di 12 fotogrammi della persona in caduta libera. Drew è riuscito a fermare la storia, come già aveva fatto alle 12.15 del 5 giugno 1968 quando, ancora ventunenne, aveva immortalato l’ultimo respiro di “Bobby”Robert Kennedy.

Come centinaia di altre persone costrette a lanciarsi dai piani alti dell’edificio a causa del fumo, delle fiamme e dell’assenza di vie di fuga, l’uomo nella sequenza di Drew si contorce nell’aria in modo disordinato e incontrollato, mentre il vento generatosi dalla spaventosa velocità di caduta, gli strappa via la camicia bianca qualche momento prima che sopraggiunga morte certa.

Ma di quei 12 fotogrammi della drammatica, caotica e mortale sequenza di Drew, uno spicca in modo particolare. Un’immagine tranquilla, intima, incredibilmente armoniosa e pacata nella sua compostezza: è a testa in giù, perfettamente verticale, posto nel terzo superiore del fotogramma e a metà tra la torre nord e quella sud. Sembra rilassato, calmo, quasi sereno. Le sue braccia allineate al corpo e una gamba compostamente piegata, come in una sorta di tuffo. Quasi volando.

Un momento altamente drammatico e nel contempo divenuto il frammento che testimonia una tragedia di proporzioni inenarrabili, punto di svolta e di cambiamento radicale nella storia del ventunesimo secolo. È sicuramente l’immagine simbolo di quel giorno terribile e indelebile. Da quel momento, la foto scattata da Drew è destinata a passare alla storia.

 

Il giorno successivo l’immagine di “Falling Man“, come venne soprannominato l’uomo, campeggiava a pagina sette di The New York Times e su tutti i giornali americani e non, facendo il giro del mondo.

Tra lo sdegno e la furia di lettori sconvolti e disorientati, giudicata insensibile, grottesca e voyeuristica, i quotidiani, dal Times al Memphis Commercial Appeal, ritirarono l’immagine e, costretti a mettersi sulla difensiva, la cancellarono anche dall’archivio online. L’immagine non è mai più comparsa sui giornali dal 2001, e Drew ebbe a dire a riguardo “La fotografia più famosa che nessuno ha mai visto. Non c’è sangue, non c’è violenza. Si tratta solo della pacifica immagine di un uomo che cade. Chiunque la guardi può identificarsi molto con essa. È come se dovessero chiedersi cosa avrebbero fatto al loro posto, quel giorno al World Trade Center”.

Già, cosa avremmo fatto noi, quel giorno? La risposta a questa domanda, forse, spiega tutto il potere di questo scatto straordinario, capace da un lato di emozionare, dall’altro di disturbare ogni spettatore rendendolo protagonista assoluto della scena, seppur seduto davanti ad un televisore oltreoceano ed immerso insieme all’umanità in un oblio collettivo.

La rivista Esquire pubblicò nel 2003 una delle riflessioni più interessanti sul tema. E sempre il sopraccitato Tom Junod affermò come come quella fotografia bilanciasse in modo sottilissimo sia l’etica della professione giornalistica, sia il nostro rapporto con il voyeurismo, con il guardare dallo spioncino, invadendo l’intimità del Falling man, di quell’uomo che “non ha scelto la sua fine, eppure sembra, negli ultimi istanti della sua vita, averla accettata. Se non stesse cadendo, potrebbe quasi sembrare che stesse volando. Sembra a suo agio. Non sembra intimidito dalla forza di gravità né da quello che lo aspetta”.

Questa foto, così potente, sublime e disorientante, raffigura oltre ogni possibile interpretazione, una decisione difficile da comprendere e grave al punto di destabilizzare lo spettatore ad ogni sguardo. L’uomo che cade – the Falling Man, non avrebbe mai più avuto un nome né tanto meno un volto, ma era destinato a diventare il simbolo di come tutti si sono sentiti, sullo sfondo di quei due grattacieli che si sgretolavano. Non sapremo mai perché optò per quel gesto estremo – probabilmente consapevole che la sua fine sarebbe stata comunque imminente. Ma il vero potere della foto più potente di quel giorno, di quell’immagine del “Falling Man” non è più racchiuso nel suo volto o nella sua identità, ma in ciò che è divenuto nella memoria collettiva: un martire involontario ed un inconsapevole soldato sconosciuto in una guerra altrettanto sconosciuta e incerta, destinato a rimanere sospeso per sempre nella storia.

Un monumento ad un “milite ignoto” nella sua discesa verso l’eternità, nel quale chiunque ha rivisto se stesso e continua ancora a rivedersi dopo 18 anni grazie a quella foto che ce lo restituisce. Una immagine straordinariamente forte, comunicativa come solo uno scatto fotografico potrebbe essere. Quello più potente di qualsiasi altro.

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