Non è affatto un caso che i più grandi registi siano stati anche dei raffinati e talentuosi fotografi la cui grandezza è consistita, anche e soprattutto, nella trasposizione del culto per l’immagine dalla fotocamera alla macchina da presa.
C’era una volta un tizio, americano, che si chiamava Stanley Kubrick. Appassionato fotografo fin da giovanissimo, inizia a lavorare come fotoreporter a New York per il Look Magazine e nessuno poteva immaginare che sarebbe diventato uno dei più grandi, forse il più grande, tra i registi della storia del cinema (oltre che un grandissimo fotografo per chi ha avuto la possibilità di vedere esposte le sue opere in giro per musei).
La sua passione viscerale, il suo culto ossessivo per l’immagine ne ha fatto un mito, un genio, un esperto, un visionario, un inventore. E proprio la trasposizione della fotografia al cinema ha reso le sue opere ancora più straordinarie e meravigliosamente “fotografiche”.
Kubrick, che soleva fare un film ogni 3-5 anni (talvolta anche 7 anni), lavorando lo stesso non meno di due anni almeno, era un tecnico molto esperto e ha lasciato un solco importante nella inventiva e nella tecnica di ripresa.
Tra le varie leggende che si raccontano, seppur confermate, c’è quella secondo cui il film Barry Lyndon, realizzato nel 1975, sarebbe stato interamente girato in luce naturale. Ambientato nel’700, per Kubrick doveva avere una resa assolutamente naturale e, pertanto, girato con luce naturale diurna e con la luce delle candele per le riprese degli interni. Se nel ‘700 non c’era la corrente elettrica, non poteva esserci altra luce che quella naturale.
“Perché ha preferito l’illuminazione naturale?“, chiese un giornalista a Kubrick in un’intervista. Il regista rispose: “Perché è così che vediamo le cose. Ho sempre cercato d’illuminare i miei film in modo da simulare la luce naturale, usando di giorno le finestre per illuminare realmente il set, e nelle scene notturne usando quelle fonti luminose che si vedono nella scena stessa. Questo approccio comporta problemi già quando si possono usare luci elettriche brillanti, però quando le luci più brillanti in una scena sono i candelabri e le lampade ad olio le difficoltà sono di gran lunga maggiori“.
Ma non si nasce Stanley Kubrick per niente, ed ecco che al Maestro, nel voler girare un film ambientato nel Settecento, vengono in mente una serie di soluzioni per usare quanta più luce naturale possibile.
La storia racconta che Kubrick non solo si svenò per acquistare candele ma che gli stessi fornitori delle stesse non riuscivano ad accontentarlo per la quantità imbarazzante che veniva richiesta dal cineasta. E le pretese, di certo, non finirono qui: servivano lenti luminose, luminosissime per evitare di riprendere immagini scure, vista la scarsa luminosità della luce delle candele.
Già alcuni anni prima, da appassionato fotografo ed esperto di ottiche, aveva appreso, al Photokina 1966, che la Carl Zeiss aveva mostrato al pubblico un obiettivo nuovo ed incredibilmente caratteristico: il Planar 50mm f0.7.
Questa lente straordinariamente luminosa, e unica nel suo genere, è stata prodotta in soli dieci esemplari su richiesta della NASA considerato che doveva essere utilizzata per le missioni lunari Apollo.
Dotato di un vistoso otturatore centrale, questo mostro (sacro) da quasi due kg, presentava una diagonale di 27mm e copriva il formato 18x24mm. Con otto lenti disposte in sei gruppi, alcune delle quali al lantanio, aveva l’ultima lente a soli 4mm di distanza dalla pellicola rendendolo, gioco forza, inadatto all’uso su apparecchiature reflex.
Quanto e come sia poi stato realmente utilizzato dalla NASA non si sa. Si parla di un solo utilizzo, ovviamente sperimentale, durante la missione Apollo 8 alla fine del 1968.
Proprio durante i lunghissimi lavori preparatori di Barry Lyndon, Kubrick scoprì che la NASA non aveva mai ritirato dalla Zeiss tre dei dieci obiettivi Planar prodotti.
Senza indugio alcuno si mosse per commissionarne l’acquistò e si rivolse a Ed Di Giulio, un maestro delle tecniche cinematografiche che insieme all’operatore Garrett Brown aveva inventato la SteadyCam, sfruttata e sviluppata al massimo dal regista nell’immediato futuro. La cosa non fu affatto semplice. Kubrick, nel chiedere, o meglio pretendere, dimostrava, a suon di fogli fruscianti di calcoli, che quello che voleva era assolutamente realizzabile.
Di Giulio si dovette inventare qualcosa, e pensò di adattare lo Zeiss ad una cinepresa Mitchell BNC, non reflex, che Kubrick aveva comprato pochi anni prima ed utilizzato (con lenti grandangolari molto spinte e analogamente molto amate) in Arancia Meccanica. La Mitchell sembrava molto indicata anche perchè consentiva di utilizzare magazzini per oltre 300 metri di pellicola, contro i 100 delle più diffuse Arriflex.
Dopo tre mesi di duro lavoro (e dopo aver rimosso l’otturatore), lo Zeiss Planar era finalmente montato sulla Mitchell, alla quale era stato aggiunto anche un sofisticato ma intuitivo meccanismo per la messa a fuoco.
Ciak, azione? Decisamente no. Lo Zeiss Planar in realtà aveva una profondità di campo ridottissima nonostante il mirino (peraltro non reflex, come detto) ingannasse l’operatore dando una straordinaria impressione di avere tutto a fuoco.
Per venirne a capo furono realizzati alcuni test riprendendo degli oggetti ad una distanza nota e sviluppando poi di volta in volta lo spezzone di pellicola impressionato. Si analizzava l’effettiva profondità di campo riscontrata, riportandola successivamente sull’apposita ghiera innestata sulla Mitchell.
Dopo tanto sbattimento si riuscì finalmente a definire un intervallo di messa a fuoco controllabile compreso tra i 60cm ed i 150cm. Le prime prove sul campo diedero risultati entusiasmanti: la luce naturale era resa in maniera formidabile, e nonostante le grandi difficoltà (non ultime quelle degli attori che dovevano recitare quasi immobili per non finire fuori fuoco!), le premesse erano davvero convincenti.
Non era ancora finita però! L’obiettivo, infatti, copriva correttamente il formato cinematografico 18x24mm, ma una focale di 50mm su tale formato diventa quasi un medio/tele (l’angolo di campo è più o meno quello di un 80mm sul formato 24×36).
Troppo stretto per le riprese che Kubrick aveva in mente di girare. Il regista chiese nuovamente un altro sforzo al creativo Di Giulio nel realizzare un aggiuntivo ottico che rendesse lo Zeiss Planar il più grandangolare possibile mantenendo inalterata la luminosità! Per chi mastica fotografia sa bene perchè tale richiesta fosse assolutamente complicata da soddisfare.
Di Giulio, facendosi aiutare da Richard Vetter, un esperto di ottica, si procurò due aggiuntivi con i quali modificò gli altri due Planar di Kubrick con il risultato di ottenere, per il secondo, un 36,5mm, e per il terzo un 24mm. Quest’ultimo però all’atto pratico mostrò un’evidente distorsione a barilotto che costrinse il cineasta a dovervi rinunciare. Alla fine Kubrick utilizzò le cineprese Arriflex per le riprese in esterni, e la Mitchell con i due Zeiss per le scene in interni.
Questo connubio straordinario contribuì a realizzare un’opera magnifica, fotograficamente perfetta, sontuosa ed elegante che, in tante scene, richiama perfettamente le tele di tanti pittori dell’epoca. Le famose sequenze a lume di candela sono un’esperienza visiva difficile da raccontare a parole.
Grazie a quei Planar, Kubrick riesce a girare le scene di Barry Lyndon con le condizioni di luce più critiche, specialmente, quelle illuminate solo dalla luce delle candele. John Alcott, lo stesso che con Kubrick firmò anche Arancia meccanica e The Shining, riceverà un meritatissimo Oscar per la fotografia nel 1976.
Ora però, finendo la lettura di questo articolo, non abbiate la sola curiosità di guardare Barry Lyndon esclusivamente per le lenti Zeiss e le riprese a lume di candela! Oltre la tecnica, parliamo di un’opera raffinata e sublime che tanto distrae ed inganna per la straordinaria e debordante bellezza figurativa, con il rischio di relegarla ad un mero esercizio di alto manierismo visivo.